Antibirth (2016)

By Simone Corà | lunedì 3 ottobre 2016 | 00:01

Un film di gente che si fa le canne. Però horror.                                                    

A quanto pare non ci sono solo Seth Rogen e Evan Goldberg a seguire la via del cinema più fumato, Danny Perez prova a intrufolarsi tra erba e alcol con un progetto abbastanza strampalato e sorretto da una delle idee più bizzarre mai uscite della scena horror (che, okay, non si può dire sennò è spoiler brutto e cattivo).
Pur partendo da basi ormai poco accattivanti come quella della maternità satanica, la gravidanza inattesa di Lou rimbalza tra menefreghismi e muri di liquore in maniera anche abbastanza avvincente, con uno spettro ironico che enfatizza i momenti più strambi.
Non siamo però ai livelli di una vera e propria commedia, dove si sa come viene trattato certo intrattenimento: Antibirth invece affronta l’argomento con una serietà maggiore, schiaffa i suoi personaggi in una suburbia sporca e congelata dall’inverno, e tra un bicchiere e una sigaretta non mancano una manciata di punte introspettive anche di una certa intensità.

Natasha Lyonne è perfetta nei panni trasandati di Lou, e buona parte del film funziona proprio grazie alla testardaggine con cui allontana ogni aiuto: sicura delle proprie convinzioni, distrugge la propria vita giorno per giorno tracannando birra, anche quando diventa chiaro che qualcosa sta crescendo dietro di lei.
Il gruppo di tossici che le si raccoglie intorno è solo in grado solo di sfruttarla, ne usano il corpo, la casa, i soldi, il tempo e persino l’amicizia, ma Lou è sempre a testa alta e sa che l’unica a cui può affidarsi per portare avanti la gravidanza è lei stessa. Solo l’incontro con Lorna aiuta Lou ad aprirsi un po’, e la sequenza del dialogo in auto riesce anche a essere commovente.
Gli scampoli ironici sono sbuffi improvvisi e parecchio weird, distendono la drammaticità dei temi e creano un’atmosfera più leggera e piacevole da digerire: le battute con cui Lou demolisce il mondo attorno a lei sono sempre ficcanti e precise, e a dire il vero spezzano il ritmo quando il film tende ad ammosciarsi.

Tra viaggi onirici e molleggiamenti psichedelici, Perez incappa in più di una lungaggine, e in una sorta di ripetitività sta il difetto maggiore del film, che si accartoccia, si ferma e riparte per poi accartocciarsi di nuovo proponendo schemi e motivazioni molto simili. Dei 94 minuti totali almeno 15 potevano venire scartati in favore di un maggior dinamismo e un ritmo più pimpante, perché dopo la prima mezzora Antibirth non sembra perseguire, o forse non è in grado di proporre, soluzioni alternative al modello rabbia-birra-fumo-battuta-sogno onirico.
Non sono un fan della psichedelica e delle visioni allucinogene, a loro modo qui sono ben fatte con un boato di colori e personaggi che grondano simpatico disagio e malessere, ma un paio di momenti surreali in meno avrebbero aiutato il film laddove non spinge come potrebbe: le tentazioni body-horror e la breve parte finale.


Ci sono molti momenti utili a capire che la gravidanza di Lou non è normale, e allo spettatore vengono forniti anche a inizio film per mezzo dell’amante-schiava dello spacciatore (una ragazza dal corpo splendido ma con volto deforme e un grugno da orco), ma Perez preferisce avvicinarsi a piccole dosi per poi bastonare a lungo con scene di incredibile intensità gore.
La pelle che si stacca dal collo e il mega-bubbone nel piede sono momenti mica da ridere che, considerando anche il tono scanzonato del film, arrivano come ginocchiate sul naso, pura violenza visiva, estremamente efficace. Peccato che Perez non li sfrutti, annegandoli in una nebbia di fumo e deliri alcolici, come se non volesse rivelare la vera natura del suo film o se temesse di perdere parte del suo pubblico.
E infatti la rivelazione arriva solo negli ultimi cinque minuti, ed è un’incessante esplosione di liquami, sangue e frattaglie, un vero e proprio assalto gore dove tutti gli elementi horror e sci-fi vengono espulsi con una forza impressionante. Poco tempo, quasi uno spreco, Antibirth cambia faccia e impazzisce ma non sembra esserci neanche il tempo di godersi questa monumentale scarica di brutalità, perché il climax che inseguiva Perez non si costruisce su novanta minuti di niente e cinque di follia ultrasanguinaria, bensì su un graduale crescendo con cui preparare il terreno (un po’ come succedeva nell’ottimo We are still here).

Poteva essere un b-movie da incorniciare, invece è solo un film di gente che si fa le canne e che all’improvviso sblaaargh-spurrk-sbreeergh! Ecco. Però carino. E insomma, bisogna segnarsi anche questo regista per vedere se riesce a calibrare la macchina da presa. Magari con una canna in meno, o in più, a seconda di come viene meglio l’ispirazione

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